Ho potuto guardare nelle loro case, nei loro affetti, nelle speranze.
Ho conosciuto le loro mamme, dispensatrici di vita e di grande senso pratico.
Oggi, insieme ad Alì, Arshad, Ajmal e Rabii, sono venuti due nuovi ragazzi: Ebrima – gambiano e Mahad – eritreo.
Come sempre, abbiamo tentato nuovi codici di comunicazione che aggirassero la mancanza di una lingua comune.
Siamo comunque riusciti a ottenere quanto deve essere alla base di un incontro: curiosità, rispetto e accoglienza. Da qui si può pensare di costruire qualcosa, sempre.
I loro grandi occhi hanno indagato ancora la mia figura e io mi chiedo nuovamente perché vengano ad ascoltare chi non può garantire loro né un permesso di soggiorno né un lavoro.
Credo siano venuti perché è piacevole stare insieme e sentire risuonare, gli uni negli altri, vecchi problemi e nuove speranze.
Hanno vinto le timidezze e mi hanno sorpreso, ancora una volta, modellando pesci, alberi, animali, preziose forme geometriche, oggetti comuni, intere stanze domestiche.
Si sono raccontati con fiducia, hanno lavorato con piacere e con cura: se ti esprimi con cura poi stai meglio, perché ti sei rappresentato al meglio, hai capito che puoi essere migliore e che questo si riflette sugli altri e li contagia.
Ora li porterò con me questo ragazzi, questi uomini che nessuno potrà mai risarcire dei torti subiti (ma qualcuno lo vorrà mai fare?).
Abbiamo fatto un pezzo di strada insieme, ci siamo sentiti vicini e solidali.
Con niente abbiamo fatto una rivoluzione, pur essendo consapevoli che non basta, che quelle cose abusate che si chiamano diritti bisogna saperle difendere e pretendere, per noi e per gli altri.
So per certo che in un prossimo giro della Storia saremo noi gli africani, i siriani, gli afghani, i bengalesi di domani e arrancheremo presto lungo altre rotte balcaniche, inseguiti e respinti dalle polizie di frontiera e dai loro cani addestrati a morderci i polpacci.
Tutti questi onesti ragazzi non dovrò pescarli dalla memoria per farli arrivare sullo schermo della mia mente, tutti loro vivono nella mia carne.
Alì, il ragazzo afghano che son certo lotti ogni minuto con intelligenza e sensibilità per non perdere la speranza, ha definito il mio “lavoro” nel Centro in modo molto preciso: “Quando tu mi parli, qualcosa nella mia testa fa un giro, vanno via le cose brutte, si crea un vuoto nel quale possono entrare pensieri nuovi e belli”.