Diamo ancora spazio alle parole di Giancarlo Scialanga, il nostro volontario che ha accettato una sfida speciale perché si rivolge ai più fragili tra i fragili. La prima parte di questo racconto potete leggerla qui. Giancarlo ora ci racconta di relazioni in viaggio, del darsi senza nulla in cambio, dell’importanza di aggiustare le cose rotte e di semi dentro una ciotola maliana.
Oggi, a causa del Ramadan, credevo non venisse nessuno. Invece ho conosciuto tre nuovi ragazzi: Ali, afghano; Ajmal, pakistano; Sumon, bengalese minorenne. E poi sono tornati a incontrarmi Souleyman, Abbas e Harsham.
Non ho proposto di lavorare l’argilla, ma abbiamo parlato della bellezza dell’incontro, di come sia giusto restare aperti, disponibili alla meraviglia. Ho portato una fascinosa ciotola in legno maliana e tre semi di piante diverse raccolte in viaggio.
Hanno tenuto i semi tra le mani e ne hanno sentito la materia, le diverse porosità, il sorprendente rumore del seme che batteva dentro la capsula che lo conteneva. In questo caso la natura ci parla di concetti dimenticati, ma ancora presenti in noi. Noi siamo un seme.
La ciotola, rotta e riparata, mi ha permesso di dividere con loro la rivoluzionaria importanza della conservazione di un bene. Nei loro villaggi se un oggetto è rotto non si butta via frettolosamente: si ripara, con cura, magari cambiandone l’uso. La sua vita si allunga. Si ripara bene, con cura e rispetto per il servizio che ci ha reso e per quanto ancora potrà fare.
Eravamo tutti d’accordo nel pensare che questa fosse una buona metafora per una più giusta relazione umana verso i più fragili. Abbiamo usato la parola rispetto.
Ho raccontato mie esperienze di viaggio, grandi incontri, nei quali persone molto modeste mi hanno donato generosamente la loro attenzione. Questi scambi non erano mai giustificati dal denaro, erano quindi doni ed accadevano perché noi volevamo farlo accadere. Nella classe giravano parole molto stentate in italiano, inglese, urdu, tedesco, uno strano, improbabile gramelot che cerco sempre di legare con la gestualità e con l’espressività della mia faccia. Pare sia una pratica un po’ cafona, ma la conosco e mi permette di comunicare.
Alla fine, prima atteso e poi dimenticato è arrivato Yftar, che il racconto vuole ex generale dell’esercito eritreo, che ha perso la ragione nell’attraversamento del deserto.
Non aveva partecipato agli incontri precedenti perché hanno dovuto rivedere il suo piano farmacologico. Non parla, ma ha due occhi profondi e attenti.
Gli ho dato un foglio bianco e un pennarello: ha scritto il suo nome e i suoi 45 anni….
Vorrei avere più tempo per capire, almeno qualcosa: non mi aspettavo proprio che potesse scrivere nome ed età.
Ecco, in quella classe succedono cose così ed io sento il calore di questi contatti, e se quando intervengo li sento partecipi e vivi dentro le mie storie, se sento che anche loro, come me, avvertono che sono le storie di tutti, sono un nostro patrimonio comune, malgrado le difficoltà e le inadeguatezze, i pregiudizi…. allora abbiamo la conferma che sappiamo sentire in profondità, fino al punto di confonderci con l’altro.