Oggi è il penultimo incontro con la mia piccola classe dì migranti fragili. I protagonisti a volte cambiano, ma sono comunque un nucleo, con istanze molto simili. Sono un corpo organico che tende a mostrare dì sé zone superficiali, che non coinvolgano quanto dì più profondo lo compone: la rabbia, la nostalgia, la noia, l’inutilità, la frustrazione, la delusione, ma anche, per i più coraggiosi, una testarda voglia di scoperta. Tutti questi sentimenti convivono e si mescolano tra loro, ben protetti dalla ripetitività delle loro giornate.
Mi piace sentire che questo tempo che trascorriamo insieme sfugge alle loro tristezze, ai loro frequenti mal di testa. Il nostro incontro diventa un piacevole intervallo, dentro il quale propongo un confronto fatto di sincerità.
Non prendiamoci in giro, campare è una storia complicata: noi, insieme, con tutti gli artifici possibili, cerchiamo possibili vie dì fuga.
Belay, eritreo – 41 anni; Sumon, bengalese – 17 anni; Ajmal, pakistano – 34 anni; Abbas, pakistano non so quanti anni abbia; Arshad, pakistano – 45 anni; Assan, burkinabé – 28 anni; Rabii, tunisino – 28 anni.
Oggi sono loro che vorrei portare con me a ritrovare i loro bellissimi e violentatissimi Paesi, per poi abbandonarli nuovamente, ma da uomini liberi di viaggiare, senza ricorrere a trafficanti, senza doversi sentire respinti quando ancora non sono arrivati, senza la certezza che la loro morte è una possibilità annunciata.
Tiro fuori i pani d’argilla e oggi ho con me anche una piccola matassa di filo di ferro, perché Abbas vive con frustrazione il non saper ottenere risultati apprezzabili dall’argilla. Gli mostro un pesce che ho realizzato proprio con il filo di ferro e lui sembra motivato ad affrontare questa nuova prova. È già un buon risultato. Si mette in gioco. Rischia. Ha fiducia. Sarà un confronto complesso, ma lo sosterrà, anche se la spinta iniziale pian piano perderà forza.
Ajmal cerca nell’argilla una dimensione domestica e la sua stanza (non la casa, ma la stanza comune, ancora più intima) contiene il suo mondo sognato: un bel divano, una cucina, un tavolo, due sedie, una mazza da cricket e un neonato che dorme in un lettino. La donna/mamma/moglie non c’è, ma i sentimenti sono duri da esternare, a meno che non si tratti della propria mamma, dispensatrice di vita e di senso e unica depositaria di molte delle forme che assume l’amore.
Assan ama gli animali. Inizia da una mucca dalle grandi corna e prosegue con una tartaruga e un coccodrillo. Mi aveva detto di non aver mai lavorato l’argilla, ma non è così; o almeno, quasi tutti questi ragazzi nei loro villaggi hanno visto artigiani della creta produrre stoviglie, vasi, brocche, anfore.
Rabii, con il filo di ferro, fa un albero. Ogni volta che ha affrontato un lavoro, con la creta o con il ferro ha sempre dato forma a una pianta. Abbiamo riflettuto sul significato dell’albero e ho capito che per lui rappresenta la vita, lunga e imprevedibile, al punto da fargli appendere ai rami dei punti interrogativi. Bellissimo!
La prossima volta sarà la mia ultima nel Cas Mancini, mi porterò tutti loro con me e li ringrazierò ogni volta che si affacceranno nella stanza dei miei sentimenti.